Religione


Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Considerazioni inattuali II, 1874)

8.

Una religione che ritiene l'ultima fra tutte le ore della vita umana come la più importante, che profetizza una fine della vita sulla terra e condanna gli esseri viventi a vivere nel quinto atto della tragedia, certamente stimola le forze più profonde e nobili, ma è ostile ad ogni nuova coltivazione, a ogni ardito esperimento, a ogni libero desiderio; si oppone a qualsiasi volo nell'ignoto, perché là non esiste amore, né speranza per lei: malvolentieri essa si lascia imporre ciò che diviene, per rimuoverlo o sacrificarlo al momento giusto, questa seduzione ad esistere, questa trama di menzogne sul valore dell'esistenza.

Aurora (1881)

13.

Per una nuova educazione del genere umano. Cooperate, dunque, voi uomini soccorrevoli e ben intenzionati, ad un'unica opera, ad allontanare cioè dal mondo intero quel concetto di castigo che lo ha soffocato! Malapianta peggiore non v'è! Non solo la si è posta nelle conseguenze dei nostri modi d'agire - e come è già spaventoso e contrario alla ragione l'intendere la causa ed effetto come causa e pena! - ma si è fatto ancora di più e si è privata della sua innocenza tutta la pura causalità dell'accadere con questa scellerata ermeneutica del concetto di castigo. Anzi, una tale follia si è spinta così lontano, da far sentire l'esistenza stessa come un castigo, - è come se finora a guidare l'educazione del genere umano fossero state le fantasticherie di carcerieri e carnefici.

15.

I più antichi mezzi di consolazione. - Primo grado: l'uomo in ogni malessere e in ogni sventura vede qualcosa per cui deve far soffrire qualcun altro, - in ciò acquista coscienza del persistere del suo potere, e questo lo consola. Secondo grado: in ogni malessere e in ogni sventura l'uomo vede un castigo, cioè l'espiazione della colpa e il mezzo per liberarsi dal malvagio incantesimo di un torto reale o presunto. Quando egli scorge questo vantaggio che la sventura reca con sé, allora non crede più di dover far soffrire un altro per questo, - si dice libero da questa sorta di soddisfazione, perché ora ne ha un'altra.

29.

I commedianti della virtù e del peccato. .- Tra gli uomini dell'antichità che divennero famosi per la loro virtù, c'era, come sembra, una stragrande maggioranza di quelli che recitavano la commedia dinanzi a se stessi: sono stati i Greci in particolare, in quanto commedianti incalliti, ad aver fatto appunto questo, del tutto involontariamente, è ad averlo trovato un bene. Perciò ciascuno era, con la sua virtù, in gara con la virtù di un altro o con quella di tutti gli altri: come non dovrebbero essere state impiegate tutte le arti per mettere in mostra la propria virtù, soprattutto dinanzi a se stessi, se non altro per esercitarsi! A cosa servirebbe una virtù, che non si potesse mostrare o che non si sapesse mostrare! - A questi commedianti della virtù il cristianesimo pose un freno: in compenso inventò il ributtante far pompa e sfoggio del peccato, portò nel mondo la menzognera peccaminosità (fino a oggi tra i buoni cristiani essa è considerata come qualcosa «che dà tono»).

62.

Dell'origine delle religioni. - Come si può sentire la propria opinione sulle cose come una rivelazione? Questo è il problema dell'origine delle religioni: ogni volta c'è stato un uomo in cui quel processo fu possibile. Il presupposto di ciò è che egli già prima credeva alle rivelazioni. Ecco che un giorno, all'improvviso, egli conquista il suo nuovo pensiero e il carattere beatificante di una grande e personale ipotesi che abbraccia il mondo e l'esistenza entra così prepotentemente nella sua coscienza, che non osa sentirsi creatore di una tale beatitudine e ascrive al suo Dio la causa di ciò e ancora la causa della causa di quel nuovo pensiero, in quanto, cioè, rivelazione di Dio stesso. Come potrebbe un uomo essere l'autore di una così grande felicità? - suona il suo pessimistico dubbio. Per realizzare questo agiscono in segreto altre leve: si rafforza, per esempio, dinanzi a sé un'opinione avvertendola come una rivelazione, se ne cancella così il carattere ipotetico, la si sottrae alla critica, anzi al dubbio, consacrandola. In tal modo si abbassa se stessi al rango di organi, ma alla fine è il nostro pensiero a vincere in quanto pensiero divino, - questo sentimento, per cui alla fine si resta vincitori, prende il sopravvento su quell'altro sentimento di umiliazione. Sullo sfondo gioca anche un altro sentimento: se si innalza al di sopra di se stessi la propria creazione e apparentemente si prescinde dal proprio valore, rimane senz'altro un'esultanza d'amore e d'orgoglio paterno che compensa tutto e significa qualcosa di più di un compenso.

La gaia scienza (1882)

38. Parla il saggio

Dio ci ama perché ci ha creato!

«È stato l'uomo a creare Dio», ribattete voi, perspicaci.

E non dovrebbe amare quel che ha creato?

Dovrebbe anzi, poiché l'ha creato, negarlo?

Ciò zoppica, ha lo zoccolo del diavolo.

57. Gusti difficili

Se mi dessero libertà di scegliere,

mi piacerebbe scegliermi un posticino

nel bel mezzo del Paradiso o,

meglio ancora ― davanti alla sua porta!

108. Nuove battaglie.

Dopo la morte di Buddha, per molti secoli si continuò a indicare in una caverna la sua ombra, un'ombra immane e raccapricciante. Dio è morto: ma visto com'è fatto il genere umano, dureranno forse ancora per millenni le caverne in cui si indica la sua ombra. E noi - noi dobbiamo sconfiggere anche la sua ombra!

125. L'uomo folle.

Non avete sentito parlare di quell'uomo folle che, nel chiarore del mattino, accendeva una lampada, andava al mercato e gridava incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!». Poiché molti di coloro che si trovavano là non credevano in Dio, suscitò una gran risata. «Si è forse perduto?», disse uno. «Ha smarrito la strada, come un bimbo?», disse un altro. «O forse si è nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? E emigrato?» E così gridavano e ridevano insieme. Il folle balzò in mezzo a loro e li trafisse con lo sguardo. «Dov'è andato Dio?», gridò. «Ve lo dico io. L'abbiamo ucciso noi, - voi e io! Noi tutti siamo i suoi assassini. Ma come abbiamo fatto? Come siamo riusciti a bere tutto il mare, fino all'ultima goccia? Chi ci ha dato la spugna per cancellare tutto l'orizzonte? Che cosa abbiamo fatto, quando abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? Ma in che direzione si muove, adesso? In che direzione ci muoviamo noi? Lontano da ogni sole? Non precipitiamo sempre più? E all'indietro, dilato, in avanti, da ogni parte? Esistono ancora un sotto e un sopra? Non vaghiamo attraverso un nulla infinito? Non avvertiamo l'alito dello spazio vuoto? Non fa più freddo? Non scende di continuo la notte, sempre più notte? Non occorre accendere la lampada anche al mattino? Non sentiamo il frastuono dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo ancora l'odore della putrefazione divina - anche gli dei, si putrefanno? Non è troppo grande per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo divenire dèi noi stessi, per essere degni di lei? Non c'è mai stata azione più grande - e chi nasce dopo di noi appartiene, in virtù di questa azione, a una storia più elevata di quanto non sia stata la storia fino ad oggi!»

A questo punto il folle tacque e riprese a osservare i suoi ascoltatori: anch'essi tacevano, guardandolo estraniati. Infine egli gettò per terra la sua lampada, che andò in mille pezzi e si spense. «Sono venuto troppo presto», disse poi, «non è ancora l'ora. Questo evento enorme è ancora per strada, in cammino, - non è ancora giunto alle orecchie degli uomini. Lampo e tuono hanno bisogno di tempo, la luce degli astri ha bisogno di tempo, le azioni hanno bisogno di tempo, anche dopo essere state compiute, per essere viste e udite. Questa azione è ancora più lontana degli astri più lontani, - eppure sono stati loro a compierla!»

Si dice anche che il folle, quello stesso giorno, sia penetrato in diverse chiese e vi abbia intonato il suo Requiem aeternam deo. A chi lo conduceva fuori e cercava di farlo parlare, rispondeva sempre: «Che cosa sono ormai queste chiese, se non le tombe e i monumenti funebri di Dio?».

135. Origine del peccato.

Il peccato, come lo si avverte comunemente laddove predomini o abbia predominato il cristianesimo: il peccato è un sentimento ebraico e un'invenzione ebraica per cui, vedendo la moralità cristiana in quest'ottica, tutto il cristianesimo tendeva all'«ebraizzazione» del mondo intero. In che misura vi sia riuscito, in Europa, lo si avverte nel modo più sottile dal grado di estraneità che l'antichità greca - un mondo senza sensi di colpa - continua ad avere per la nostra percezione, nonostante tutta la buona volontà di accostarlo e incorporarlo nutrita da intere generazioni e individui eccelsi. «Dio è misericordioso soltanto se ti penti»: questa proposizione sarebbe per un greco motivo di riso e d'indignazione; egli direbbe che si tratta di una «sensibilità da schiavi». Vi si presuppone infatti un essere potente, superpotente e tuttavia bramoso di vendetta: il suo potere è così grande che non può essere danneggiato, se non nell'onore. Ogni peccato è un venir meno al rispetto, un crimen lesa majestatis divinae, e nient'altro! Contrirsi, umiliarsi, rotolarsi nella polvere: è questa la prima e ultima condizione da cui dipende la sua grazia, ovvero il ripristino del suo onore divino!

Che il peccato produca altri danni, che sia seme di una sciagura grave e crescente, che colpisca e soffochi un uomo dopo l'altro, come una malattia, tutto ciò non tocca minimamente questo orientale avido di onori assiso nel suo cielo: il peccato è un crimine contro di lui, non contro l'umanità!

Colui cui ha donato la sua grazia risulta anche intangibile dalle conseguenze naturali del peccato. Dio e l'umanità sono qui pensati in modo così separato e contrapposto che contro quest'ultima, in fondo, non si può peccare, e ogni azione deve essere considerata soltanto in riferimento alle sue conseguenze sovrannaturali, non a quelle naturali: così vuole la sensibilità ebraica, per la quale tutto ciò che è naturale è di per sé indegno. I Greci erano invece più inclini all'idea che anche il crimine potesse avere una sua dignità, persino il furto, come nel caso di Prometeo, persino la strage di bestiame come espressione di una vendetta folle, come nel caso di Aiace: nel loro bisogno di immaginare una dignità per il crimine e di incorporarvela essi hanno inventato la tragedia, un'arte e un piacere cui gli Ebrei, nonostante tutto il loro talento poetico e la loro inclinazione al sublime sono sempre rimasti, nel più profondo del loro essere, completamente estranei.

151. Sull'origine della religione.

Il bisogno metafisico non costituisce l'origine delle religioni, come vuole Schopenhauer, ma una conseguenza delle stesse. Sotto il predominio del pensiero religioso, ci si è abituati all'idea di un «altro mondo (posteriore, inferiore, superiore)» e si avverte, all'annientamento della illusione religiosa, una sgradevole sensazione di vuoto e di privazione - orbene, da questa sensazione rinasce un «altro mondo», che però è soltanto metafisico e non più religioso. Per contro quello che, in epoca primordiale, portò a presupporre un «altro mondo», non fu un istinto o un bisogno, ma un errore nell'interpretazione di determinati procedimenti naturali, una perplessità dell'intelletto.

347. I credenti e il loro bisogno di fede.

Quanto una persona, per prosperare, abbia bisogno di una fede, quanto di «solidità», che non vuole. subisca scosse, perché vi si regge: questo è l'indicatore della sua forza (o, per parlare più chiaramente, della sua debolezza). Mi pare che del cristianesimo, nella vecchia Europa, i più abbiano ancora bisogno: ecco perché esso continua a trovare chi gli presta fede. Perché l'uomo è fatto così: un principio di fede potrebbe essergli confutato anche mille volte, ma se ne avesse bisogno, continuerebbe a ritenerlo vero, conformemente a quella famosa «prova di forza» di cui parla la Bibbia...

La fede è sempre massimamente desiderata e urgentissimamente necessaria laddove sussiste una mancanza di volontà: perché è la volontà, in quanto stato d'animo del comando, il segno distintivo dell'autodominio e della forza. Ciò significa che quanto meno uno sa comandare, tanto più desidererà qualcuno che comandi, comandi severamente: Dio, principe, ceto sociale, medico, padre confessore, dogma, coscienza di partito; dalla qual cosa si potrebbe forse dedurre che le due religioni mondiali, il buddhismo e il cristianesimo, potrebbero essere nate e aver conosciuto una diffusione così improvvisa proprio a causa di una mostruosa malattia della volontà.

E le cose sono andate davvero così: entrambe le religioni trovarono un desiderio di «tu devi» che una malattia della volontà aveva innalzato sino all'assurdo e portato alla disperazione; entrambe le religioni furono maestre di fanatismo all'epoca dell'infiacchimento della volontà, offrendo così a innumerevoli persone un sostegno, una nuova possibilità di volere, un gusto del volere. Il fanatismo è infatti l'unica «forza di volontà» a cui possano essere condotti anche i deboli e gli insicuri, in quanto giunge quasi a ipnotizzare tutto il sistema intellettuale sensoriale in favore di un nutrimento sovrabbondante (ipertrofia) di un determinato modo di vedere e di sentire dominante: il cristiano lo chiama la sua fede. Laddove un uomo giunge alla convinzione fondamentale di dover ricevere ordini, diviene credente: in caso contrario sarebbe pensabile una voglia e una forza di autodeterminazione, una libertà della volontà in presenza delle quali uno spirito prende commiato da ogni fede e da ogni desiderio di certezza, abituato com'è a tenersi a funi e possibilità lievi, continuando a danzare anche sull'orlo dell'abisso. Un tale spirito sarebbe lo spirito libero par excellence.

Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1885)

Parte seconda

Dei grandi eventi

Così parlai al cane di fuoco: ed egli m'interruppe ringhioso e domandò: «Chiesa? Che cos'è?».

«Chiesa?» risposi io «E’ una specie di Stato, la specie più bugiarda. Ma taci tu, cane ipocrita! Tu conosci il tuo essere meglio di tutti!

Come te lo Stato è un cane ipocrita; come te parla volentieri con fumo e strepito, in modo da far credere, come te, che parli dal ventre delle cose.

Poiché vuole essere l'animale più importante della terra, lo Stato; e viene anche creduto.»

Al di là del bene e del male. Preludio ad una filosofia dell’avvenire (1886)

59.

E’ il profondo e sospettoso timore di fronte a un pessimismo insanabile che costringe interi millenni a conficcare i denti in un'interpretazione religiosa dell'esistenza; la paura di quell'istinto, che teme che si possa giungere troppo presto alla verità, prima che l'uomo sia divenuto abbastanza forte, abbastanza duro, abbastanza artista...

La devozione, la «vita in Dio», guardate con questo occhio apparirebbero come l'ultima e la più raffinata creazione del timore di fronte alla verità, come adorazione ed ebbrezza dell'artista di fronte alla più coerente di tutte le falsificazioni, come volontà di capovolgimento della verità, volontà di non verità a qualsiasi prezzo. Forse non c'è stato fino ad oggi nessuno strumento più efficace per abbellire l'uomo stesso, se non appunto la devozione: per suo mezzo l'uomo può divenire a tal punto arte, superficie, giuoco di colori, bontà, da non far soffrire più alla sua vista.

61.

Agli uomini comuni, infine, alla maggior parte, che esistono per servire e per l'utilità generale e soltanto per questo possono esistere, la religione offre l'inestimabile capacità di accettazione della loro situazione e del loro modo di essere, la molteplice pace dell'anima, una nobilitazione dell'obbedienza, una maggiore comunanza di felicità e dolore con i loro simili e una specie di trasfigurazione e di abbellimento, qualcosa come la giustificazione dell'intera quotidianità, dell'intera bassezza, di tutta la povertà semibestiale della loro anima.

La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto (1887-1888)

202.

Disinfezione dell'amore per opera della Chiesa: il matrimonio.

L’Anticristo (1888)

VIII

Fino a quando il sacerdote, questo negatore, calunniatore e avvelenatore della vita per professione, verrà ancora considerato una razza superiore di essere umano, non vi potrà essere risposta alla domanda: che cosa è la verità? Se questo consapevole difensore del nulla e della negazione viene stimato come il rappresentante della «verità», la si è già capovolta...

IX

Dichiaro guerra a questo istinto teologico: ne ho trovato tracce ovunque. Chiunque abbia nelle vene sangue di teologo ha un'attitudine radicalmente falsa e disonesta nei confronti di tutte le cose. Il pathos che esso genera è chiamato fede: chiudere gli occhi una volta per tutte davanti a sé stessi per non soffrire alla vista di un'incurabile ipocrisia. Con questa falsa prospettiva su tutte le cose, ci si crea una morale, una virtù, una santità su misura, si unisce la buona coscienza alla falsa visione, si pretende che nessun altro tipo di ottica abbia valore, dopo che si è resa sacrosanta la propria con le parole «Dio», «redenzione», «eternità». Ho scovato l'istinto teologico in ogni dove: è la più diffusa, la più sotterranea forma di falsità esistente sulla Terra. Ciò che un teologo percepisce come vero è sicuramente falso: questo è quasi un criterio di verità. E il suo istinto più basso di autoconservazione a proibirgli di considerare un qualsiasi aspetto della realtà o anche solo di parlarne. Ovunque si estenda l'influenza teologica, viene capovolto il giudizio di valore, i concetti di «vero» e di «falso» sono necessariamente rovesciati: qui viene chiamato «vero» ciò che è più dannoso alla vita, mentre ciò che la eleva, la rafforza, la afferma, la giustifica e la fa trionfare è chiamato «falso»... Se capita che, tramite la «coscienza» di prìncipi (o di popoli), i teologi allunghino le mani sul potere, non vi sono dubbi su ciò che sempre ne è la causa: la volontà della fine, il volere nichilistico brama il potere...

XX

Con la mia condanna del cristianesimo non vorrei avere fatto torto a una religione affine che addirittura giunge a superarlo in quanto a numero di fedeli: il buddhismo. Entrambe, essendo religioni nichilistiche, sono correlate, sono religioni della décadence; ma si differenziano l'una dall'altra in modo sorprendente. Il critico del cristianesimo è profondamente grato ai saggi indiani, giacché ora è possibile comparare queste due religioni. Il buddhismo è cento volte più realista del cristianesimo, ha ereditato un modo freddo e oggettivo di porsi i problemi; nasce dopo un movimento filosofico durato centinaia di anni; appena esso sorge, il concetto di «Dio» è già eliminato. Il buddhismo è l'unica religione veramente positivistica che la storia ci mostri, anche nella sua teoria della conoscenza (un rigoroso fenomenalismo); esso non parla più di «lotta contro il peccato» bensì, e in ciò dando del tutto ragione alla realtà, di «lotta contro il dolore». Si è già lasciato alle spalle, e questo lo distingue profondamente dal cristianesimo, l'autoinganno dei concetti morali; si trova, per esprimere il concetto con parole mie, al di là del bene e del male.

I due fatti fisiologici su cui si fonda e sui quali concentra il suo sguardo sono: innanzi tutto un'eccessiva eccitabilità della sensibilità che si esprime con una raffinata capacità di soffrire, e in secondo luogo un eccesso di intellettualismo, una vita spesa troppo a lungo sui concetti e sulle procedure logiche, sotto i quali l'istinto personale ha subito il male a vantaggio dell’«impersonale» (due condizioni che, come me, almeno alcuni dei miei lettori, gli «obiettivi», conosceranno per esperienza). Sulla base di tali condizioni fisiologiche si sviluppa un stato di depressione: contro essa Buddha prende delle misure igieniche. Vi oppone la vita all'aria aperta, la vita in movimento; la moderazione e la scelta dei cibi; la cautela verso tutte le bevande alcooliche, come pure verso tutti i sentimenti che producono bile e riscaldano il sangue; nessuna preoccupazione né per sé né per gli altri.

Egli esige pensieri che diano o quiete o allegria, e trova il modo per disabituarsi a quelli di altro tipo. Intende la bontà, l'essere buoni, come vantaggioso alla salute. La preghiera è esclusa, come pure l'ascetismo; nessun imperativo categorico, soprattutto nessuna costrizione, nemmeno nelle comunità monastiche (si è liberi di andarsene) : tutto ciò sarebbe un modo per accrescere quell'eccessiva eccitabilità.

Sempre per questa ragione pretende che non si combatta contro coloro che hanno un modo diverso di pensare; il suo insegnamento si oppone più di ogni altra cosa al sentimento di vendetta, di avversione, di ressentiment («l'inimicizia non cessa con l'inimicizia», è questo il commovente ritornello di tutto il buddhismo). E a ragione: queste emozioni sarebbero del tutto dannose rispetto al principale obiettivo dietetico. Combatte la stanchezza spirituale che egli trova e che si esprime con eccessiva «obiettività» (vale a dire con una diminuzione dell'interesse dell'individuo, con una perdita del baricentro, dell'«egoismo»), con un severo ritorno anche agli interessi più spirituali, alla, persona.

Nella dottrina di Buddha l'egoismo diviene un dovere: il principio «una sola cosa è necessaria», il «come ti puoi liberare dalla sofferenza» regolano e circoscrivono tutta la dieta spirituale (si rammenti quell'ateniese che in modo analogo muoveva guerra alla «scientificità» pura, si ricordi Socrate, il quale elevò l'egoismo individuale alla dignità di principio morale persino nel regno dei problemi).

XXVI

“Che significa «ordine morale del mondo»? Che esiste una volta per tutte una volontà di Dio, che decide tutto ciò che l'uomo deve o non deve fare; che nei destini di un popolo o di un individuo la volontà di Dio appare dominante; cioè che egli castiga o premia a seconda del grado di obbedienza. La realtà, messa al posto da tale miserevole menzogna, significa: una certa classe di uomini parassiti, quella di sacerdote, prospera soltanto a spese di ogni forma di vita sana, e abusa del nome di Dio: chiama «regno di Dio» una forma di società nella quale il sacerdote è colui che fissa il valore delle cose; chiama «volontà di Dio» i mezzi per raggiungere o mantenere tale stato di cose; giudica con freddo cinismo popoli, epoche e individui a seconda che siano stati utili o che abbiano resistito alla preponderanza sacerdotale.

VLVIII

E’ stata davvero capita la famosa storia che si trova all'inizio della Bibbia? La storia del terrore di Dio nei confronti della scienza?... Non la si è capita. Quel libro da sacerdoti par excellence esordisce, come si conviene, con la grande difficoltà interiore del sacerdote: egli è esposto a un solo grande pericolo, di conseguenza «Dio» è esposto a un solo grande pericolo.

Il Dio antico, tutto «spirito», tutto sommo sacerdote, tutta perfezione, se ne va a passeggio nel suo giardino: ma si annoia. Gli dèi stessi lottano invano contro la noia. Che fa allora? Inventa l'uomo, l'uomo è divertente... Ma attenzione, anche l'uomo si annoia. La compassione di Dio per l'unica pena di cui tutto il paradiso soffre non conosce limiti: crea subito degli altri animali. Primo errore di Dio: l'uomo non trovò divertenti gli animali, dominò su di essi, non volle neanche essere un «animale». Allora Dio creò la donna. E in effetti la noia ebbe fine, ma anche qualcos'altro! La donna fu il secondo errore di Dio. «La donna è per sua essenza il serpente, Eva», ogni sacerdote lo sa. «Tutto il male viene al mondo per causa sua», ogni sacerdote sa pure questo. «Allora anche la scienza nasce da lei»... Solo a causa della donna l'uomo imparò a gustare il frutto dell'albero della conoscenza. E che cosa accadde? Una paura terribile assalì l'antico Dio. L'uomo stesso era divenuto il suo errore più grande: Dio si era creato un rivale, in quanto la scienza rende simili a Dio: per i sacerdoti e per gli dèi è finita se l'uomo diventa scientifico!

Morale: la scienza è il proibito in sé, essa è tutto ciò che è proibito. La scienza è il primo peccato, il germe di tutti i peccati, il peccato originale. La morale non è altro che questo. «Tu non devi conoscere»: il resto segue da questo. Il terrore di Dio non gli impedisce di essere scaltro. Come difendersi dalla scienza? Per molto tempo fu questo il suo problema principale. Risposta: l'uomo esca dal paradiso. La felicità e l'ozio suscitano pensieri e tutti i pensieri sono cattivi...

L'uomo non deve pensare. E il «sacerdote in sé» inventa la fatica, la morte, il pericolo mortale della gravidanza, ogni sorta di miseria, la vecchiaia, i tormenti e soprattutto la malattia: null'altro che strumenti di lotta contro la scienza! Il bisogno non permette all'uomo di pensare... Eppure... Che spavento!

L'edificio della conoscenza si innalza maestoso, oscurando il cielo come una tempesta, ponendo gli dèi al crepuscolo: che fare? Il Dio antico inventa la guerra, divide i popoli, fa che gli uomini si distruggano a vicenda (i sacerdoti hanno sempre avuto bisogno della guerra...). La guerra è tra le altre cose grande perturbatore della scienza! Incredibile! La conoscenza, l'emancipazione dal sacerdote, cresce a dispetto delle guerre. Così il Dio antico giunge a una decisione estrema: «L'uomo è divenuto scientifico, non resta altro da fare, bisogna annegarlo!»...

Crepuscolo degli idoli; o come si filosofa col martello (1888)

Detti e frecce

7.

E che? l'uomo è soltanto un errore di Dio? Oppure Dio è soltanto un errore dell'uomo? –

18.

Chi non sa porre la propria volontà nelle cose, vi pone almeno un senso: crede, cioè, che in esse esista già una volontà (principio della «fede»).